Viaggiatori Controcorrente. Percorsi di benessere non farmacologico. Dapero Edizioni
di Maria Silvia Falconi, Luca Lodi, Valentina Molteni, Orlando Prete
La prima volta che a un convegno vidi all’opera la “banda dei quattro” (ma stavolta Mao non c’entra!) rimasi affascinato dalla loro comune passione che, singolarmente e nella forza del gruppo e del reciproco spirito di collaborazione, traspariva dietro ogni discorso, ogni esempio, ogni aiuto vicendevole nel compito di raccontare il loro lavoro.
A presentare il loro primo libro hanno chiamato me, un vecchio neurologo dei vecchi, appassionato a sua volta, direi ossessionato, dall’uso responsabile dei farmaci nelle persone vulnerabili, e quindi con uno sguardo attento alla popolazione anziana sempre più numerosa e ai possibili traguardi di benessere attraverso mezzi non farmacologici.
Vecchi sbagliati si diventa da bambini, avevo scritto pochi anni fa in Malati per forza per stimolare il lettore a una tempestiva prevenzione utile ad allontanare magari di un decennio lo spettro della fragilità.
Tuttavia, vecchi sbagliati si può diventare anche per responsabilità altrui! Oramai sono numerose le testimonianze scientifiche sull’uso scorretto, inopportuno, a volte sconsiderato e superficiale dei farmaci proprio da parte di coloro che peraltro ne assumono diversi a causa delle varie patologie che li accompagnano con l’avanzare dell’età. Lo scomodo tema delle “malattie da farmaci” va affrontato ovviamente senza demonizzarli e senza condannare in blocco l’operato della classe medica, la quale tuttavia non risulta sempre preparata ad affrontare i piccoli e i grandi guai dei vecchi e la usuale complessità che accompagna le loro condizioni cliniche, e non sembra del tutto incline ad accettare l’idea di scuola gerontologica che la persona anziana è ben diversa da un adulto giovane. L’utilità, la necessità dei farmaci va ribadita con forza in questa epoca di false verità, quelle che in maniera superficiale mettono in dubbio certezze scientifiche e persino il buon senso, purché essi vengano usati con scrupolo e accompagnati da una corretta informazione, dai controlli ravvicinati necessari e infine dalla fiducia e collaborazione di chi li riceve.
In contesto attuale, nello scenario dominato dall’invecchiamento progressivo della popolazione e dall’incremento delle patologie neurodegenerative, la condizione che porta le persone anziane (o meno anziane…) ad una qualche forma di demenza conduce quasi sempre all’uso di farmaci. Possono essere gli inibitori delle colinesterasi (I-ChE) e la memantina che agiscono prevalentemente sulla componente cognitiva (e non solo) ma unicamente nella condizione fortunata in cui le persone malate di demenza siano responder, ovvero ottengano dei miglioramenti clinici; oppure gli psicofarmaci di vario tipo per sedarle, tranquillizzarle, renderle meno aggressive o depresse, curare le loro strambe idee di furto o il passaggio di allucinati fantasmi.
Non mi diverto a demolire l’innocente pregiudizio di un familiare (e a volte di un collega medico) che mi sta di fronte, stanco e allarmato dall’affaccendamento di chi è preda della demenza e gli vive accanto, quando affermo che persona agitata + psicofarmaco non fa sempre = persona calma e sorridente! In pubblico sostengo e in modo lapidario che le strategie non farmacologiche “valgono 95”, mentre possono essere utili gli psicofarmaci nel restante 5 per cento. A quel punto osservo spesso facce e sentimenti di soddisfazione da parte delle figure professionali coinvolte nella cura delle persone con demenza ma non abilitate a prescrivere farmaci. Sono tante, insostituibili e preziose nel pesante compito comune di alleviare un dramma.
Certo, nell’epoca liquida in cui qualcuno cerca di farci credere che basta una notte per apprendere l’inglese e che sembra scomparsa la parola sacrificio, si fa fatica a spiegare che non esiste la sicura efficacia di uno psicofarmaco che… “me lo faccia dormire di notte, ma che di giorno sia sveglio e pimpante”… quando invece serve in modo prioritario uno sguardo attento alle dinamiche che hanno portato ad un certo disturbo comportamentale deflagrante e che ci informi sullo stato di coscienza della malattia da parte di chi soffre di demenza (quando non esiste per niente, il compito del caregiver è davvero tragico), senza dimenticare di approfondire i contorni umani e sociali di “quella” persona con demenza, i rapporti affettivi o semplicemente logistici con “quella” sua famiglia, e sempre che ci siano dei familiari…
Significa non affidarsi come primo gesto curativo alla via ritenuta semplice, rapida e all’apparenza fruttuosa, lo psicofarmaco, ma al cammino concretamente più complicato che si realizza attraverso interventi non farmacologici (INF). Per metterli in atto serve ascoltare, capire, imparare e poi tentare gli approcci ritenuti adatti. Non esiste una soluzione facile per ogni condizione e ogni approccio deve essere provato, elaborato ed erogato su misura, “tailorizzato”, come in sartoria.
Nel libro si discute, appunto, di approcci adatti. Nell’introduzione le due autrici e i due autori scrivono che in questo difficile compito non si improvvisa:… far chiarezza in un panorama professionale che vede una moltitudine di approcci detti non farmacologici e non sempre guidati da buone prassi e metodo. E aggiungono: …non ci accontentiamo del fatto che la persona anziana non manifesti (o riduca) quel tal disturbo comportamentale ma miriamo al suo benessere… dando priorità alla relazione come tramite per favorire il benessere di entrambi i soggetti coinvolti.
Mi piacciono i combattenti e quelli all’apparenza un po’ eretici e controcorrente, ma dalle idee e dalle esperienze chiare!
Così, da veri entusiasti, hanno tracciato un percorso da seguire per prendersi cura delle persone con demenza attraverso la Terapia della bambola, la Musicoterapia, la Terapia dei viaggiatori e infine la Pet Therapy. Ne è venuto fuori un libro di professionisti che amano prendersi cura delle persone, piuttosto che semplicemente accontentarsi di curarle, e magari con un uso ponderato e giustificato di psicofarmaci da parte di medici illuminati e collaborativi. Perché curare può rivelarsi solamente un arido esercizio costruito con iter e formulette da seguire secondo linee guida, con strategie che non sempre rassicurano se non sono ben coniugate con l’umano ascolto, l’empatia, la buona informazione.
I quattro controcorrente hanno creato un ponte di comunicazione possibile con le persone malate di demenza e in questo sfondo di complessità (a volte di colpevole sottovalutazione sulle ali del “razzismo dell’età”, il pericoloso ageismo) stanno lavorando da anni per costruire ponti, non certo a scavare fossati tra “noi e loro”, i medici e i non-medici, ponti di comprensione e di comunicazione ancora possibile in una rete composta da onesti artigiani della salute.
La musica che ti ricordi: rubo questo titolo a Lara Rigotti che ha pubblicato un interessante articolo sul tema nel numero di agosto di UomoCittàTerritorio. E a seguire una citazione di Schopenhauer riportata da Oliver Sacks in Musicophilia (Adelphi, 2007) che mi ha ricordato Eloisa Stella nel suo recente www.novilunio.net: “La profondità inesprimibile della musica, così semplice da comprendere e allo stesso tempo inspiegabile, è dovuta al fatto che riproduce tutte le nostre emozioni più intime del nostro essere, ma in maniera completamente estranea alla nostra realtà e alla sua sofferenza… La musica esprime solo la quintessenza della vita e i suoi avvenimenti, mai gli eventi stessi”.
La musica è legata indissolubilmente ai nostri ricordi e “si accumula” in aree del nostro cervello che le varie demenze coinvolgono in genere tardivamente. Fa parte integrante delle nostre emozioni, è un linguaggio universale. L’armonia, la musica è certamente fonte di benessere mentale e generale. La musica può essere utile a migliorare o recuperare funzioni cognitive, emozionali, sociali, purché vengano rispettate certe condizioni che Maria Silvia ha segnalato in uno spiritoso ed utile “bugiardino”.
Invecchiare in armonia. Rumori, suoni, musica è il tema 2017 del Centro Studi Alvise Cornaro di Padova, a completamento di un ciclo di riflessioni sui sensi nella vecchiaia che ha visto coinvolti negli anni precedenti la vista, il gusto a tavola, l’udito, a testimoniare una nuova attenzione verso i nostri organi di senso. Ben fatto, poiché tra i fattori di rischio oramai appare assodato il ruolo che lega i deficit sensoriali più comuni in tarda età, soprattutto quelli che comportano la riduzione severa o la perdita di vista e udito, allo sviluppo di demenze e di altre forme di disabilità croniche “di contorno”. Siamo attorniati, minacciati dal rumore. Ovunque, anche nei nostri ospedali e nelle nostre RSA! E il rumore non è solamente un fattore di rischio di logoramento dell’apparato acustico ma contribuisce alle alterazione dell’architettura del sonno e della salute cardiovascolare e cognitivo-comportamentale. Finalmente, una commissione internazionale di esperti voluta dalla rivista Lancet ha identificato in tutto nove fattori per ridurne i casi di demenza, Alzheimer compreso, di oltre un terzo (circa 35%). Pochi mesi fa, sul numero di luglio, Gill Livingston ed altri 23 esperti internazionali hanno aggiunto, al preesistente elenco noto dal 2011 che ne segnalava sette, due “nuovi” fattori di rischio per demenze, la sordità e la scarsa socializzazione: ora diabete mellito, ipertensione arteriosa e obesità in età adulta, fumo, depressione, bassa scolarità, sedentarietà hanno altri due compagni di sventura! I due “nuovi” fattori di rischio in realtà sono noti da anni a chi come il sottoscritto si occupa della fragilità degli anziani e tuttavia solo adesso hanno ottenuto la meritata ufficializzazione. Adesso aspettiamo che vengano riconsiderati altri fattori di rischio: la severa riduzione della vista e la qualità del sonno, appunto, ma anche l’inquinamento atmosferico e, infine, tema a me caro, i farmaci. Su tutti questi altri aspetti sono emerse nel tempo, anche recentissimo, prove scientifiche della loro significatività.
E comunque, più musica e meno rumore!
Il viaggio e la fuga. Il viaggio genera ricordi ed emozioni, rappresenta senza dubbio anche un momento di fuga (controllata) dal posto in cui si trova l’ospite, in genere una struttura doverosamente chiusa, una RSA o un diurno. Spesso è una fuga verso casa, un amaro ritorno al passato recente o più spesso lontano, verso “quella” casa natale, il luogo degli affetti, la struttura “emotiva’’ che lo ha accolto quando è venuto al mondo, dove avrà fatto la prima esperienza di essere amato e accudito da qualcuno, forse come non gli è più capitato durante il resto della vita. Il viaggio virtuale è un tenero omaggio al passato ed è creato da amara nostalgia.
Il finto scompartimento di un treno può anche favorire forme di dialogo con operatori o con gli stessi (a volte increduli) familiari; consente di sviluppare progetti di stimolazione cognitiva centrata sulla memoria autobiografica e di conoscere meglio il viaggiatore e la sua storia, di aiutarlo quando è preda di insostenibili fenomeni di wandering, il disturbo del vagabondare che caratterizza le fasi tardive delle demenze.
Il tempo scandito di questo treno immaginario, la sua musicalità che ben conosciamo e i panorami che offre guardando dal finestrino, riescono invece a riportarlo indietro, in un altro tempo ritmato della memoria. Il viaggio è anche musica.
Luca e Orlando affermano che “Il sistema esploratorio è sempre attivo in noi, è necessario ai fini dell’adattamento, soprattutto quando le circostanze cambiano” e rafforzano questa verità dettata dalla biologia umana citando Anne Carson “L’unica regola del viaggio è: non tornare come sei partito. Torna diverso”. E per la prima volta, dopo anni di approfondimento, questa terapia trova una nuova accezione spostando il focus dal viaggio all’accompagnatore: ecco nascere la Terapia dei Viaggiatori!
Mi vengono in mente degli aforismi che ho raccolto nel tempo. Di questi che propongo purtroppo non conosco gli autori: il primo è “Le utopie sono come l’orizzonte: più cammini per avvicinarti e più si spostano in avanti. Servono però per continuare a camminare”. L’altro sembra parlare alle nostre esperienze con le persone malate di demenza: “Sono i miraggi a muovere la carovana”.
Il potere terapeutico dell’accudimento: la bambola e il cane.
Una bambola può trasformarsi da semplice giocattolo a strumento terapeutico: si tratta di bellissime bambole (“empathy dolls”), create appositamente per stimolare e favorire l’espressione delle emozioni. Il racconto di Valentina inizia con un richiamo alla mia terra, la Sicilia, attraverso una “picciridda”, una bambola che viene accolta con amore da Antonio e riporta la calma nella struttura. Che io sappia, lei è stata la prima in Italia a riflettere e studiare la rilevanza del sistema di attaccamento/accudimento che si attiva nella relazione tra persona affetta da demenza e bambola. Mi ha confessato tempo fa: “Noi non ci accontentiamo del fatto che funzioni e porti beneficio ma, essendo umani esploratori, andiamo alla ricerca del senso profondo che ci mette in connessione diretta con l’esperienza che sta facendo il destinatario del nostro intervento”.
Le caratteristiche delle bambole adatte alla terapia creano stimoli e sensazioni che percorrono vie ancestrali e raggiungono centri nervosi che ci accomunano ai nostri antichi progenitori, in aggregati di neuroni funzionali all’elaborazione degli istinti e delle emozioni, in grado di sopravvivere persino alla distruzione creata da una demenza quando arriva allo stadio severo.
Vivere come testimoni il successo di una relazione tra persona severamente malata e bambola induce allo stupore. “Tratti di umanità baluginano continuamente, come la piccola fiamma di un lumicino. E’ la vita che dimostra così di essere invincibile”. Così Marco Trabucchi ha citato Salvatore Mannuzzu.
Anche l’Alzheimer’s Society della Gran Bretagna nel marzo 2014, tra i punti cruciali del suo A good life with dementia, ha sostenuto con forza la capacità delle persone con demenza di avere emozioni e si è soffermata sui residui valori di identità, di felicità e persino di realizzazione. Che immenso valore possiede l’avere creato un senso di fiducia, di utilità, di responsabilità, nel momento stesso in cui viene affidata una bambola, un “bambino”? I giochi, come costruzione della realtà, ci riconducono sia all’innocenza dell’infanzia, sia alle responsabilità di adulti.
Infine, il terapista a quattro zampe!
Ho sempre avuto e amato i cani e ricordo ancora con nostalgia i particolari di tutti e le gioie, anche qualche piccolo guaio, che mi hanno regalato. Attraverso la mia esperienza con loro, sono portato a capire istintivamente (e sì, qui possiamo parlare liberamente di istinti) ciò che possono regalare a una persona smemorata, confusa, isolata, depressa, apatica. Donano allegria e nello stesso tempo responsabilità dell’accudimento, aiutano al recupero di competenze; e poi regalano stimoli, pensieri buoni e guaiti di gioia, pelo caldo, movimento e passeggiate felici.
Scrivono gli autori: “Il cane non giudica. Se sbagliamo un esercizio non ci rimprovera, se ci cade un biscotto lo raccoglie e comunque è in grado di avvicinarsi ad una persona estremamente compromessa”. E’ noto sin dai tempi antichi come la vicinanza di un animale gratifichi e rassicuri l’essere umano: avere un animale come compagnia a cui badare allontana la solitudine.
Nel film di Pupi Avati Una sconfinata giovinezza il protagonista (malato di demenza, impersonato dall’attore Fabrizio Bentivoglio) torna sulle tracce della sua infanzia e va a cercare un impossibile incontro col suo cane di allora in quei boschi familiari: ma ad un certo punto il cane appare e corre allegro con lui tornato ragazzino. Nell’ultima sequenza del film, le loro figure felici nella corsa sfumano. E infine scompaiono.
Ferdinando Schiavo