Anche la salute non sembra evitare il disimpegno del presente momento storico internazionale, Italia compresa: si sfugge alla cultura e a ciò che è complicato preferendo soluzioni semplicistiche e semplificatorie o praticando in silenzio l’omissione. Ma il mondo della medicina e della chirurgia non può né deve sfuggire al compito primario, al prendersi cura delle Persone con aspetti complessi della loro salute, gli anziani in particolare.
Da qualche anno faccio incetta delle esperienze interessanti di altri e sto riflettendo amaramente sulle mie personali. Nei mesi scorsi sono accaduti dei fatti.
Ora provo a riordinare le idee e raccontarveli, tentando di giungere a una conclusione utile a tutti.
In gennaio ho patito le pene dell’influenza, a due tempi e con una coda di stanchezza, tosse, abulia che mi ha impedito di lavorare per almeno 20 giorni.
Cosa è successo? Tre anziane sui cinque nuovi pazienti che attendevano una mia visita domiciliare sono state ricoverate nell’attesa della mia valutazione e tutte per motivi sostanzialmente poco attinenti alla mia consulenza (anche se ho una visione globale di ogni caso clinico): si trattava di scompenso cardiaco, febbre, sincope.
Il ricovero in attesa della mia visita domiciliare, o addirittura la morte, non sono un fenomeno nuovo, era accaduto anche in passato… ma non con il rapporto di 3 su 5.
Mi sono chiesto: e se avessi effettuato la visita, cosa sarebbe cambiato visto che, attraverso le informazioni telefoniche che ho voluto chiedere ai familiari, le complicazioni erano “internistiche” e non strettamente neurologiche? E se avessi cambiato qualcosa della preesistente terapia e il giorno dopo quell’anziana fosse svenuta (anche se non a causa del mio cambiamento farmacologico)? Cosa avrebbero pensato i familiari? Come mi sarei sentito io?
Questi pensieri non mi inducono certamente a demordere nell’occuparmi di casi clinici (e umani) complessi.
Nel contempo in questi mesi ho ricevuto dei messaggi e telefonate che cominciavano pressappoco così: “Buongiorno dottore, visto che lei è contro i farmaci…”
“Non sono CONTRO i farmaci – ho risposto in copia-incolla – ma contro l’uso inappropriato dei farmaci. Qualsiasi imbecille – si, divento pesantemente sarcastico – può enunciare idee e schierarsi tutto da una parte o dall’altra, ma spetta al severo professionista sapere, studiare, sperimentare, decidere quanto, per quanto tempo, a chi, come dare un farmaco. Costui è costretto a conoscere, e questo è solo un piccolo esempio, le centinaia di farmaci che hanno un’azione anticolinergica, ovvero contro un neurotrasmettitore essenziale, tra l’altro, per i processi di memoria, sostanze che possono scatenare persino uno stato confusionale (Delirium) anche grave in un anziano fragile. E ben altro ancora.
La competenza, oggi, sta diventando quasi un demerito…
Nel frattempo sono accadute altre cose. Le elenco:
- Gli errori in campo medico, gli avvocati e i media
Dicembre 2018. Polemiche per lo spot TV di Enrica Bonaccorti sulle vittime di malasanità.
E’ la seconda volta che accade. In quella passata, un ricordo di pochi anni fa, ci furono dei titoloni contro gli avvocati definiti avvoltoi.
Lo spot recente è stato sospeso da RAI e Mediaset ma si può ancora vedere, credo su La7.
Riflettendo amaramente su alcune mie disastrose esperienze sul campo – vedi anche il “Progetto La strage delle innocenti” su www.ferdinandoschiavo.it – mi sono chiesto: ma non poteva essere questa una buona occasione per parlare, in maniera costruttiva e senza il velo dell’ipocrisia, della realtà degli errori medici – in ospedale, in RSA e a casa! – invece di assistere all’ennesimo spettacolo degli ordini dei medici, e non solo, scatenati contro spot simili, pur se discutibili?
Nel mondo degli anziani non posso che confermare con la mia esperienza sul campo quanto dice la bibbia dei geriatri, ovvero i Criteri di Beers ma anche le ricerche di altre valide istituzioni, tra cui Cittadinanza Attiva, il Mario Negri, l’Associazione Italiana di Psicogeriatria: è ancora alto il numero delle prescrizioni farmacologiche inappropriate e non tutti i medici hanno compreso la complessità della fragilità dell’anziano, che é un essere ben diverso da un cinquantenne.
Nel corso di questa seconda battaglia mediatica scatenata dalla pubblicità non ho voluto firmare un documento inviato da Consulcesi (Stop all’odio verso i medici. Contro chi promette facili risarcimenti chiediamo un Tribunale della Salute. Firma la petizione http://chng.it/N8xyF5VwG5) almeno fino a quando non si parlerà senza ipocrisia della “banalità del male” ovvero delle le malattie da errore dettato da negligenza o imperizia o imprudenza di tipo “medico”, e non solo di quelle in area chirurgica (le sole che invece fanno notizia, nel bene e nel male!), perché esistono, persistono e probabilmente sono in aumento in particolare a carico dei soggetti più vulnerabili, le anziane, in progressivo aumento a causa dell’invecchiamento della popolazione e per altre ragioni: il miglior tasso di sopravvivenza delle donne espone queste ultime, rispetto agli uomini:
- ad un livello di fragilità più esteso e severo negli ultimi decenni di vita in parte a causa dei cinque “anni guadagnati”
- ad un più elevato consumo di farmaci …
- a cui rispondono in maniera differente
- … e soffrendo peraltro in maggior misura di eventi avversi legati proprio al loro uso.
- La complessità chirurgica. Cesare Faldini è il giovane e brillante direttore della Clinica Ortopedica 1 al Rizzoli di Bologna ed ha scritto un chiaro, onesto, condivisibile e stimolante articolo sul Corriere Salute del 10 febbraio 2019 dal titolo “Il prezzo delle cause pagato dai pazienti”.
Entrare in sala operatoria è il mio lavoro, e me lo sono scelto. Mi sono anche scelto il tipo di chirurgia: le grandi deformità ortopediche ed i casi ad alta complessità, rinunciando alla tranquillità degli interventi routinari… significa studiare ogni singolo paziente senza potersi affidare alla casistica di migliaia di casi simili… spesso la grande complessità è rara, quindi la soluzione va scelta affidandosi all’esperienza e al buon senso. Creare diffidenza nei confronti del medico non fa che danneggiare il paziente, perché innesca un pericoloso circolo vizioso dove gli interventi a rischio verranno sempre più scansati dai medici… Chi spiegherà al malato che una complicanza che incide normalmente nel 5 per cento dei casi operati, come avviene nelle gravi scoliosi… non è un errore medico ma un’evenienza inevitabile? A paziente che firma il consenso sembra un rischio basso, ma nel nostro reparto 5 per cento significa 100 pazienti su duemila in un anno di lavoro… L’insuccesso in chirurgia fa parte del gioco… Complicanza ed errore sono due evenienze ben diverse… Promuovere azioni legali contro gli insuccessi della chirurgia non farà altro che aumentare la paura e l’astensionismo da parte dei medici, e i pazienti ci rimetteranno…
- A proposito di denunce. Sono 300 mila in Italia le cause contro medici e strutture sanitarie private e pubbliche. Trentacinque mila nuove azioni legali ogni anno. Ma secondo i dati più aggiornati (Tribunale del malato (2015) e Commissione Parlamentare d’ inchiesta sugli errori sanitari, del 2013) il 95% dei procedimenti per lesioni personali colpose si conclude con un proscioglimento. I numeri sono stati esposti al ministero della Salute da Consulcesi, network legale in ambito sanitario. Le aree maggiormente a rischio contenzioso sono quella chirurgica (45,1% dei casi), materno-infantile (13,8%) e medica (12,1%).
Una apparente banalità manichea: esistono errori in campo strettamente medico ed altri in area chirurgica. Certi successi in sala operatoria, “fanno scena”, sono mediatici, solleticano l’aria di sensazionalismo che oggi (più che in passato) piace tanto. Gli errori chirurgici, tuttavia, hanno più spesso code legali, mentre quelli più sotterranei, a livello “medico” no.
Rimangono inascoltati, coperti dal nulla. E quando tutto va bene a livello “medico” la gioia resta murata tra i volti contenti e a volte stupiti dei familiari. Il pudore – per fortuna ancora resiste in questa epoca sguaiata – ne isola i contorni, lo rende finalmente privato, come deve essere.
- La complessità “medica”. Nasce il medico della complessità: un paziente su tre ha più malattie. Da DottNet. “Le malattie croniche rappresentano il 60% di tutte le patologie e la loro prevalenza aumenta con l’età. Dal diabete all’asma, dallo scompenso cardiaco all’Alzheimer (e le altre demenze?), in Italia un paziente su 3 ha più di una malattia cronica, e si arriva fino a due su tre se si considera la popolazione più anziana. Gestire queste condizioni è tra le principali sfide della sanità e per farlo è stata creata una figura professionale ad hoc, il “medico della complessità”. Questi i temi al centro dell’incontro “Il paziente complesso, un nuovo protagonista sullo scenario della salute”, che si è svolto a Roma, con il supporto incondizionato di Alfasigma. Le malattie croniche rappresentano il 60% di tutte le patologie e la loro prevalenza aumenta con l’età. Spesso però tendono a convivere tra loro. Al punto che il 10% della popolazione sopra i 65 anni ha almeno tre condizioni croniche, che richiedono più farmaci, più medici e maggiori costi. “Quando individuiamo una persona sofferente si tende a etichettarla con la sua malattia principale. Ma in realtà, soprattutto negli anziani, se ne hanno 4, 5 o anche 6. E vanno curate tutte”.
Finalmente ci si è accorti della complessità in area medica!
- Demenze maltrattate sotto il profilo farmacologico. Ha avuto una certa rilevanza mediatica in questi giorni. Meglio parlarne, certo… ma mi sembra la scoperta dell’acqua calda, come avviene spesso in questo e in altri campi della medicina.
Ad ogni modo è confortante sapere che finalmente sempre più colleghi cominciano a interessarsi del serio problema della “malattie da farmaci”. Da incoraggiare.
Da DottNet. I malati di demenza sono curati in modo frammentato, in assenza di una pianificazione condivisa con operatori e familiari. Il che si traduce in ripetute ospedalizzazioni, utilizzo di farmaci inappropriati, indagini diagnostiche e trattamenti invasivi. Condizioni che non prolungano la sopravvivenza, mentre contribuiscono ad aumentare stress e sofferenza”. Lo spiega la geriatra Claudia Cantini, in forze all’ ospedale di Pistoia, che aggiunge come anche secondo vari lavori scientifici internazionali almeno 4 pazienti su 10 sono sedati di continuo o trattati con farmaci di dubbia utilità, se non dannosi. Cantini affida le sue esperienze a una relazione che presenterà al Congresso nazionale sui Centri diurni Alzheimer, decimo della serie, organizzato a Montecatini Terme (1-2 marzo) dall’ Unità di Medicina dell’ invecchiamento dell’ università di Firenze.
Siamo vicini alla Giornata Mondiale contro il Delirium e desidero concludere la mia riflessione con uno dei tanti casi in cui non capisci se un paziente “è così per evoluzione biologica, naturale, di quella malattia… oppure c’entrano altre condizioni magari reversibili o i farmaci?”
E’ una domanda che tutti dovrebbero porsi quando accolgono una Persona nuova in struttura, in ospedale, o la visitano a casa, in ambulatorio.
Il caso della “mummificata” descritto sul mio Malati per forza, Caso 29, è un tragitto di sofferenza durato 5 anni ma coronato dal ritorno ad una vita normale, ad una “guarigione”, a soli 56 anni. E’ il più bello della mia vita, ma non è l’unico per fortuna.
Un caso recentissimo, esemplificativo, tanto per non andare lontano. Sono entrato in Residenza accompagnato dai familiari di un signore di 82 anni, ospite da mesi confuso, agitato, aggressivo, oppositivo, oramai immobilizzato tra letto (odiato) e poltrona.
Aveva avuto qualche ricovero recente per fatti febbrili polmonari e cardiaci, ma non rilevanti.
La storia clinica appariva persa, smarrita, insignificante per gli altri. Sembrava che quel giorno tutti, familiari compresi e personale sanitario della struttura, avessero un’unica priorità: sedarlo, soprattutto la notte, un desiderio comprensibile che, però, non li giustificava.
E la storia clinica?
Con qualche (mia) fatica e insistenza (l’amato e sgualcito tenente Colombo che è in me!) e non supportato da documenti clinici, sono venuto a sapere che 4 anni prima era entrato in ospedale cognitivamente e fisicamente a posto per sottoporsi ad un intervento chirurgico minore che però aveva avuto qualche complicazione, per cui era stata necessaria una prolungata anestesia. Da quel momento la vita dell’uomo era radicalmente cambiata: il suo Delirium post-operatorio aveva giustificato l’uso di antipsicotici di vario tipo, si era abbastanza velocemente e di conseguenza “parkinsonizzato”. Lentezza dei movimenti nella deambulazione, passi piccoli e frequenti, incertezza nel mantenimento dell’equilibrio, qualche caduta.
Un neurologo, suppongo, aveva consigliato farmaci dopaminergici, ovvero attivi nell’incentivare la dopamina cerebrale (ad es. Sinemet, Madopar, Sirio, Jumex, ecc.) ma terribili – in questo caso – nell’incrementare anche le allucinazioni preesistenti e connesse al Delirium. Ovviamente, per curare allucinazioni e agitazione fu aumentata la dose di antipsicotici, la Quetiapina in questo caso, la più amata dagli italiani.
Da allora assumeva ambedue, il diavolo (il Sinemet) e l’acqua santa (la Quetiapina).
Tuttavia, alla mia specifica domanda di quel giorno, i familiari avevano risposto che né il Sinemet aveva procurato miglioramenti motori né la Quetiapina a dosi abbastanza alte per età e peso quelli comportamentali.
Ma avevano continuato così; anzi, erano stati aggiunti altri psicofarmaci!
In questi casi ho imparato a rispondere alla domanda cruciale dei familiari (“Che ne dice? potrà migliorare?”) rivolgendo io a loro una domanda secca: “Ma come avete fatto ad arrivare a 4 psicofarmaci senza provare con uno alla volta, vedere se “funziona” e magari ridurlo e poi sospenderlo se non tollerato o inefficace a vantaggio di un altro da provare? Perché avete mantenuto in terapia un farmaco che non aveva promosso miglioramenti, anzi aveva ancora di più confuso, parkinsonizzato e reso acatisico il povero anziano e, per di più, ne avete aggiunti altri tre?”
(Per l’acatisia, temibile, inesplorata, sottovalutata, sconosciuta complicazione dell’uso di vari farmaci rimando ad un mio articolo su questo sito).
E ancora: chi ha dato questa benzina inadatta, la L-DOPA contenuta nel Sinemet, in presenza di un parkinsonismo prevalentemente da farmaci e di aspetti motori atipici? Si chiama parkinsonismo degli arti inferiori, Lower Parkinsonism, ed ha caratteristiche diverse dalla vera malattia di Parkinson, la sola “autorizzata” a rispondere con ottimi miglioramenti motori, almeno nelle fasi iniziali della terapia, a quel carburante, a quel neurotrasmettitore cerebrale che arriva dalla L-DOPA!
Chi ha continuato ad aumentare il dosaggio della più amata dagli italiani (la Quetiapina) malgrado sin dalle dosi iniziali il paziente non avesse risposto? Anzi…
Che fatica per noi clinici pignoli!
In conclusione, è un Delirium “autoalimentato” dai farmaci che dura da quattro anni sovrapposto a demenza?
In queste settimane mi aspetta un lavoro da certosino e non certo da rivoluzionario (togliamo tutto!).
Il caso descritto fa parte di un’esperienza sempre più frequente, tornerò a raccontandovene altri se non vi sconvolge la complessità.
Credo che il mio Malati per forza sia tra i pochi o forse l’unico libro che stigmatizzi l’uso improprio dei farmaci dopaminergici nei casi di parkinsonismo. Mi tocca aprirlo spesso a pagina 129 (Quando la MP diventa “altro”: le perplessità nella terapia farmacologica) e mostrarlo a familiari stravolti da queste nuove informazioni, increduli di tanta sofferenza, circoli viziosi e peggioramenti in fondo ingiustificati. E mi spetta certamente il compito di dare una risposta – ci deve essere umanità, voglia e tempo a disposizione da dedicare – alla loro classica domanda: ”ma non c’è niente da fare per farlo camminare?”. No, non c’è niente, se le esperienze precedenti sono state negative e persino peggiorative.
Quelli che rispondono bene alla L-DOPA: a volte basta un breve periodo test con uno di questi dopaminergici. Si può osservare persino dopo la prima compressa se il paziente migliora a livello motorio. Sono i “veri” parkinsoniani, almeno fino alla prova contraria di una diversa evoluzione.
Bisogna spiegarlo con semplicità e tenacia ai familiari di coloro non rispondono.
A questo punto mi sono chiesto: ma i formatori, ovvero, i medici, sanno, ad esempio, che qualche compressa di Buscopan in pochi giorni, unitamente ai farmaci che già un’anziana assume, può accrescere il suo “carico anticolinergico” e quindi scatenare un Delirium dall’esito terrificante, anche mortale? Conoscono il Delirium e il “carico anticolinergico” delle centinaia di farmaci, di cui tanti di uso frequente, che hanno questa azione più o meno potente su un neurotrasmettitore così fondamentale?
Sanno, i formatori, che 3 Plasil al giorno per qualche settimana sono in grado di rendere un’anziana impassibile e lenta nei movimenti (insomma, parkinsonizzata!) a causa del carico antidopaminergico di questo e di numerosi altri farmaci che agiscono su un altro neurotrasmettitore, la dopamina?
Sono piccoli esempi della mia e vostra inquietudine, espressione di una realtà, quella degli anziani e soprattutto delle anziane, estremamente complessa in un mondo che non ama la complessità ma le scorciatoie.
Riflessioni spicciole. Tra gli specialisti, gli oculisti chiedono ai loro pazienti se assumono farmaci anticolinergici visto che possono innalzare la pressione oculare (vedi glaucoma)? E lo fanno gli urologi, in considerazione del fatto che alcuni farmaci possono incidere sulle funzioni sfinteriche?
Infine, i medici formatori, sicuramente strutturati in ambito ospedaliero o universitario posseggono esperienza e una “visione extra ospedaliera” della complessità?
E sì, perché il mondo là fuori è diverso: lo so da ex ospedaliero, da ex specialista di un distretto, da ex medico condotto, da ex volontario in ospedale e infine da libero professionista, de-formatore di colleghi (poco presenti e curiosi sull’argomento) e di altri professionisti socio-sanitari, autore ed unico esecutore di un faticoso progetto di supervisione di anziani in residenze, mai pubblicato su riviste scientifiche (La strage delle innocenti è su www.alzheimerudine.it e su www.ferdinandoschiavo.it). Non devo “far carriera”, va bene così.
Noi pensionati vispi e attivi non contiamo nulla, e tuttavia siamo l’espressione ancora vivente, ribelle e resistente per fortuna, a questa voglia di nuovo, di usa e getta, di informazioni e conoscenze da chiedere al sacro internet e non più a chi ha i capelli bianchi.
Oggi, chi è competente nella complessità?
Nel 1999, ad un convegno, un direttore di cattedra di neurologia dichiarò in pubblico, seppur amabilmente, che esageravo nel dichiarare l’esistenza della complessità nel campo delle demenze in quanto mostravo nel mio modello accanto ai sintomi cognitivi e comportamentali anche quelli motori (di tipo parkinsoniano, non sempre assenti) e quelli vegetativi e sensoriali (poco considerati e quasi sempre presenti, almeno alcuni, nel corso dell’evoluzione – e a volte anche prima della comparsa dei sintomi cognitivi – nei vari tipi di demenza: perdita dell’odorato, stitichezza, ipotensione ortostatica, dimagrimento, scelta dei cibi e modifiche del gusto, senso del caldo e freddo, controllo degli sfinteri, anomalie dell’architettura del sonno, ecc.).
Quello schema oggi compie 20 anni ed è in fondo ancora più complesso, se consideriamo il resto!!!
Visti i tempi e la decadenza del senso di responsabilità, desidero lasciarvi con uno scritto di Michele Serra apparso qualche settimana fa su l’Espresso.
Il CRETINO, nella magistrale lettura di Fruttero & Lucentini, non è banalmente la persona stupida. E’ prima di tutto l’incosciente. E’ colui che si sente responsabile di nulla, a partire da ciò che fa e ciò che dice, perché la colpa è comunque degli altri. Un collezionista di pretesti, un mai cresciuto, un bimbominkia ampiamente over-trenta. Incosciente e lagnoso, impreparato alle delusioni e alle sconfitte, incapace di farsi carico delle proprie disgrazie “senza dare colpa all’epoca e alla storia” (Gaber).
Una corolla di alibi circonda il suo ego, lo protegge da se stesso, da quella durissima prova che é la cognizione dei propri limiti.