Lo vede, lo vede, dottore…All’unisono le due donne, la moglie e l’anziana madre, cercavano di farmi capire che quell’uomo di 56 anni, GP, da mesi non stava mai fermo e le stava portando all’esasperazione.
Un anno prima gli era stata diagnosticata una demenza fronto-temporale (DFT) variante comportamentale.
La DFT è caratterizzata nella maggior parte dei casi da alterazioni comportamentali vistose e in percentuale minore da forme cliniche con disturbi dell’area del linguaggio (afasia progressiva primaria e demenza semantica). E’ inoltre una demenza prevalentemente “presenile” cioè più facile ad osservarsi sotto i 65 anni, ha un alto indice di familiarità (nella storia emergono spesso consanguinei con esperienze in ambiente psichiatrico in seguito alla comparsa di cambiamenti comportamentali) e si abbina con una certa frequenza a una sintomatologia parkinsoniana. In questa demenza i segni di compromissione della memoria, intesa come capacità di ricordare eventi recenti (come ci si potrebbe aspettare da una “demenza” seguendo i classici luoghi comuni), in genere compaiono diversi anni dopo l’esordio. Nella variante comportamentale della DFT, il paziente si presenta come un malato psichiatrico, con una profonda alterazione della condotta sociale e della personalità che molto spesso inaugurano il complesso quadro clinico. Sono riscontrabili anche apatia, irritabilità, depressione, giocosità fuori luogo, euforia, disinibizione, incapacità di condurre attività sociali, rigidità e inflessibilità, comportamenti ossessivo-compulsivi e perseverativi, deliri, disturbi della condotta alimentare (alcolismo, spesso bulimia abbinata ad alterazioni nella preferenza per determinati cibi, talvolta voracità per i dolci; nelle fasi successive anche tendenza regressiva a portare pericolosamente oggetti non commestibili in bocca), difficoltà di critica e giudizio, scarsa cura dell’igiene personale e della casa, comportamento d’uso (la vista di un oggetto stimola il suo impiego immediato, ma in modo inadatto, nel posto e nel momento sbagliato), ecc. Non esiste una terapia farmacologica che ne arresti il decorso, ma solamente il ricorso agli psicofarmaci da usare con la necessaria cautela ed esperienza.
Il resto della storia. Inizialmente, mi hanno raccontato, quando GP era ancora abbastanza gestibile, gli era stata consigliata dal neurologo una terapia con un antidepressivo che agisce prevalentemente sulla serotonina, uno dei diversi SSRI “figli del Prozac” (in questo caso la paroxetina-Sereupin), a volte efficace nel contenere certe manifestazioni comportamentali e non solo curare la depressione, peraltro assente in questo caso. Tuttavia, valutato che con la cura sembrava un po’ più “agitato” di prima, gli era stato aggiunto un antipsicotico atipico (AA), l’olanzapina-Zyprexa, a dosi crescenti. Questa categoria di farmaci è adoperata in psichiatria per contenere disturbi comportamentali vari, psicosi, allucinazioni, e provoca minori effetti avversi, come il parkinsonismo ed altro ancora (vedi dopo), rispetto agli antipsicotici tradizionali (AT).
Ma il peggioramento ulteriore della situazione, cioè di quella che deve essere stata considerata dallo specialista “agitazione”, lo aveva indotto ad aggiungere un terzo psicofarmaco, e proprio un antipsicotico tradizionale, la clotiapina-Entumin. Malgrado una terapia con tre psicofarmaci il risultato globale si manteneva nondimeno negativo: GP col passare dei giorni diventava sempre più incontenibile, non riusciva a stare fermo e contemporaneamente cominciava ad apparire lento ed impacciato nei movimenti. Se è agitato, aumenti la dose di Entumin, signora! E così per altre due o tre telefonate col neurologo. L’aumento, però, esacerbava questo strano miscuglio di lentezza e di agitazione psichica e motoria. Strano per chi non conosce il paradosso dell’acatisia!
La condizione di GP andava avanti così da mesi, fino a quel giorno in ambulatorio. Non si fermava un attimo, malgrado fosse ingobbito e lento nei gesti spontanei e nei movimenti volontari, come un parkinsoniano vero. In dieci minuti, il tempo di raccogliere pochi elementi della storia, si era alzato almeno venti volte per andare alla finestra, alla porta, per scappare via, farfugliando sommessamente frasi incomprensibili. Invisitabile. E’ una tremenda acatisia con parkinsonismo, mi sono detto.
L’acatisia è una condizione poco nota nel mondo medico. E’ una sindrome psicomotoria che si manifesta con l’impossibilità di stare fermi, in piedi o seduti, associata a una componente psichica che comprende irrequietezza, marcata ansietà, agitazione e instabilità dell’umore. I soggetti con acatisia si muovono in continuazione, si alzano e si risiedono diverse volte, accavallano ripetutamente le gambe se restano seduti, dondolano, segnano il passo. A volte, però, questa spinta incessante a muoversi in continuazione è assente o poco espressa ed invece prevale la componente psichica e la condizione di malessere può rimanere soggettiva assumendo le forme di un forte disagio ansioso. Questa diversità negli aspetti clinici dell’acatisia è indotta da psicofarmaci che paradossalmente dovrebbero “calmare” e comporta facilmente errori diagnostici immaginabili e interventi terapeutici impropri e controproducenti. L’acatisia non è la sola manifestazione provocata da diversi farmaci: gli fanno buona compagnia la manifestazione più frequente, il parkinsonismo (una condizione che assomiglia alla vera malattia di Parkinson), le distonie acute, la discinesia tardiva spesso persistente, la sindrome della torre di Pisa, la sindrome maligna da sospensione di antipsicotici.
Alla fine della faticosa visita e delle necessarie spiegazioni alle due povere ed estenuate caregiver, le ho invitate a presentarsi al Pronto Soccorso con la mia relazione che motivava un ricovero in area neurologica, medica o psichiatrica, una degenza necessaria per procedere con cautela alla riduzione graduale dei tre farmaci (vedi sopra la sindrome maligna da sospensione di antipsicotici; stesse precauzioni per la sindrome da sospensione acuta da SSRI!) fino alla interruzione e alla loro sostituzione eventuale con la dose minima efficace di un solo (!) farmaco, un altro antipsicotico atipico, come la quetiapina- Seroquel.
Non fu accettato! Tramite il mio intervento telefonico, una raccomandazione a fin di bene per una spinta umana necessaria ed ineludibile tesa ad aiutare quelle tre persone sfinite, GP venne accolto giorni dopo in un reparto di medicina di un ospedale della provincia dove avevo seguito anni prima con ottimi risultati un altro caso di parkinsonismo con acatisia causati da un altro SSRI, la fluvoxamina (Maveral, Fevarin, ecc.). Durante la permanenza in reparto, la riduzione dei tre farmaci imputati nei primi dieci giorni e l’introduzione di quetiapina-Seroquel a basse dosi produssero un modesto ma sensibile miglioramento che si consolidò venti giorni dopo con la loro sospensione: a questo punto i tre farmaci potevano essere additati come i veri responsabili di quei mesi catastrofici per il paziente e i familiari.
GP era diventato gestibile. Dopo due mesi dalla prima visita, con 100 mg al giorno di quetiapina- Seroquel, sembrava un altro, migliorato persino rispetto alle condizioni iniziali pre-triplice terapia.
Che dire? Clotiapina-Entumin è un AT e può determinare pertanto l’insorgenza di parkinsonismo e acatisia; l’olanzapina-Zyprexa è un AA ma non garantisce a certe dosi l’assenza di questi eventi avversi; anche alcuni SSRI come la paroxetina data a GP (Sereupin, Stiliden, Daparox, ecc.) può provocare ambedue. La stessa quetiapina- Seroquel, il farmaco protagonista del finale meno amaro di questa storia e quindi salvatore della patria, non è del tutto esente dagli stessi vizi, ma a dosi basse e da solo (monoterapia) stavolta si era mostrato efficace e privo di effetti avversi.
Col senno del poi era possibile arrestare questa discesa all’inferno di una famiglia intera, tornando indietro, ovvero riducendo e velocemente sospendendo l’antidepressivo, il primo farmaco dato, inefficace e responsabile della cascata di decisioni terapeutiche sbagliate e di una evoluzione negativa e ricca di sofferenze.
In contrasto con certe credenze non sempre gli psicofarmaci, tutti in generale, sono efficaci nel controllo dei disturbi comportamentali in varie condizioni cliniche, tra cui le demenze di qualsiasi natura. Anzi, in molti casi (e poche molecole sono esenti) possono provocare effetti paradossi (l’opposto di quello che ci aspetteremmo) o aggravamenti o veri e propri eventi avversi, con ricaduta negativa non solo a livello comportamentale, ma persino nella sfera cognitiva (peggioramento della vigilanza, eccessiva sonnolenza, stato confusionale, ecc.), motoria (appunto, rallentamento motorio, acatisia, distonie, ecc.) e generale (abbassamenti della pressione arteriosa e svenimenti, cadute, stitichezza, ecc.). Una regola di buon senso, e comunque basata su dati scientifici, ci dice che tutti gli psicofarmaci vanno usati inizialmente e con pazienza uno alla volta ed a basse dosi. Se non c’è alcuna risposta di efficacia di un singolo farmaco non è detto che si possa ottenerla attraverso l’aumento progressivo delle dosi, e se addirittura si assiste al peggioramento oppure ad eventi avversi bisognerà tentare con un altro. Oltre a ciò, nel caso si resti insoddisfatti o dubbiosi sui risultati ottenuti, compatibilmente con lo stato clinico del paziente si può intervenire abbinando una tantum un altro per saggiarne la tollerabilità e l’efficacia: se l’esperimento saltuario mostrerà vantaggi, questo secondo farmaco potrebbe prendere stabilmente il posto del primo o essere abbinato; se no, si ritenterà con un altro ancora.
In questo iter si procede attraverso una corretta informazione dei familiari e la collaborazione col medico di famiglia, non lesinando valutazioni cliniche attente e frequenti.
Tratto da Malati per forza. Maggioli editore 2014. Modificato dal Caso clinico 14 Lo vede, lo vede, dottore…