Accade che alla fine di una conferenza una persona tra il pubblico mi esponga un caso clinico molto spesso complicato che riguarda se stesso o un familiare, accompagnandolo con una richiesta di diagnosi o terapia, precisando che alla sua soluzione si sono già impegnati senza successo diversi miei colleghi. E così, con sguardo che ondeggia tra la speranza e forse anche la sfida, vorrebbe da me una spiegazione e una diagnosi, così su due piedi!
Oppure mi capita di essere contattato per telefono o via mail da persone che descrivono un caso clinico con lunghe e necessarie spiegazioni corredate da esami e l’immancabile risonanza magnetica (che tutto dovrebbe vedere e tutto dovrebbe risolvere…) richiedendo un parere e, ancora meglio, una diagnosi certa. Rispondo il più delle volte che è un compito impossibile “da lontano” perché i casi clinici neurologici sono solitamente complessi e per una valutazione seria serve presenza, tempo e impegno. Nel mondo degli anziani la complessità è la regola! scriveva anni fa il grande psicogeriatra George Alexopoulos.
Replico così anche per quesiti apparentemente semplici, come quando mi viene richiesto dalla platea o per telefono o per mail un rimedio per l’insonnia. L’affermazione in genere è secca: NON DORMO, oppure NON DORME riferendosi ad un familiare, magari con demenza (e qui il caso diventa realmente più complicato!). La domanda, in qualsiasi circostanza (platea, telefonata o mail che sia), sembra presupporre una risposta rapida e, ovviamente, farmacologica. Ad essa però rispondo che non può essere questa la strada corretta, almeno in una dimensione di serietà professionale nella quale chi indaga dovrebbe enumerare, tra l’altro, una serie infinita di domande, che provo ad elencare per il caso dell’esempio affrontato, l’insonnia: ha difficoltà ad addormentarsi o si sveglia nel mezzo della notte o alle prime luci dell’alba? Si sveglia spontaneamente o per bisogni fisiologici magari ripetuti nella notte? A che ora va a letto, che cosa beve o mangia di «eccitante» durante il giorno, cosa mangia o beve a cena, che farmaci usa, russa, va in apnea, come dormiva prima di ammalarsi? Non è finita, naturalmente. Bisogna studiare la personalità, i bisogni, soprattutto i disagi confessabili tentando di capire se esistano quelli inconfessati; interpretare il contesto sociale e familiare e altro ancora. Infine, prospettare delle soluzioni, che non sempre includono uno psicofarmaco, in quanto a volte può bastare applicare alcune strategie da seguire per una corretta “igiene del sonno”, sulle quali non mi soffermo.
Questa modalità di lavoro, poiché di lavoro si tratta e non di gioco mediatico-televisivo, riferita all’esempio dell’insonnia ma ampliabile a numerose manifestazioni cliniche, richiede di “capire” numerosi elementi per poi ben operare, e sta certamente agli antipodi rispetto alla mentalità di chi, semplificando eccessivamente, si attende la facile soluzione, che a quanto pare prevede la veloce prescrizione di un ipnotico e i saluti di commiato.
Lo stile è simile anche quando si risponde a quesiti più complessi del ricco armamentario delle scienze neurologiche: strane cefalee, saltuari formicolii, vertigini, svenimenti, fallimenti di memoria o della parola, anomalie di comportamento (quando non rientrano tra le manifestazioni delle quali è competente lo psichiatra), alterazioni semplici e complicate del movimento, perdite di forza, svariati disturbi della vista (vedere doppio, come descritto prima, ha quasi sempre un patologia neurologica alle spalle) e numerose altre macedonie di sintomi che sono parte del lavoro quotidiano del neurologo.
La buona medicina ha necessità di tempo e di professionalità, di empatia, di buona informazione verso “chi non sa”.
Il rapporto fra professionista della salute (medico e non) e paziente è un confronto impari fra uno che sa verso uno che non sa, uno che è forte verso uno che è debole. Una modalità antica, che nello stesso tempo dobbiamo considerare innovativa, ci dice che questo rapporto deve basarsi invece:
– sull’empatia (so che cosa avverti nell’animo),
– sulla informazione (hai il diritto di sapere),
– sulla comunicazione (devo essere in grado di sapertelo dire), e infine sulla professionalità (so che cosa fare a livello tecnico).
Riassumo. La richiesta di una diagnosi attraverso domande dalla platea oppure gli attuali mezzi di comunicazione, magari supportata da esami a cui viene illegittimamente data la patente di fattori risolutori, dimostra che pazienti, familiari e comuni cittadini non hanno idea di come si svolga una valutazione medica neurologica seria e accurata. Questa mia riflessione cerca di fare chiarezza su un aspetto della relazione medico-cittadino, che peraltro non sta vivendo oggi una fase unanimemente descrivibile come idilliaca, per diversi motivi.
La lettera è indirizzata a pazienti e familiari affinché capiscano che la mancata collaborazione, almeno la mia, non è dettata da insensibilità, disinteresse, cinismo, opportunismo e tornacontismo (detto volgarmente: dovete venire in ambulatorio e pagare la prestazione!).
Eccola:
Gentile Signora, gentile Signore, è realmente arduo poter dare risposte “da lontano”, senza vedere, osservare, ascoltare, domandare, ri-domandare, precisare, toccare, esaminare con accuratezza la mente e il corpo, gli esami, i mille aspetti che contraddistinguono quel caso clinico e umano Suo personale oppure di una persona a Lei cara, con la finalità di pervenire ad una corretta diagnosi e, di conseguenza, ad una soluzione idonea.
Ogni persona è una storia, e noi dobbiamo ricordarci che entriamo nel privato di una storia umana diversa da ogni altra, sulla quale ricade il peso di una malattia che peraltro non è “sempre uguale” per tutti. E in una storia umana bisogna accedere con sana curiosità, sensibilità, rispetto, intuito e intelligenza.
Ancora più complicato è il compito di poter seguire (persino dal vivo!) e prendersi cura di una persona anziana. Le malattie croniche dell’anziano sfidano il modello dominante della medicina e dell’attuale assistenza, costruito per le malattie acute e non sulla complessità della condizione della persona avanti negli anni, solitamente portatrice di varie patologie e consumatrice di una sfilza di farmaci a numero crescente con gli anni che avanzano. Nella persona giovane, in genere, ad una causa corrisponde un effetto ed il compito della diagnosi e della cura può essere meno pesante rispetto a quando si affronta un quadro clinico di una persona anziana: in quest’ultima, lo schema di causa ed effetto, molte volte semplice da appurare, ovvero la mono-malattia, si avvera piuttosto raramente. La mono-malattia è un avversario contro cui ci si impegna avendo come obiettivo, peraltro, la guarigione; va bene quindi per i soggetti giovani o adulti, ma non sempre per gli anziani, in cui le priorità da affrontare si smarriscono. L’obiettivo della medicina per il paziente anziano è, infatti, la qualità della vita e non quello irrealizzabile della guarigione di tutte le malattie di cui di regola egli è affetto. La persona anziana, se è fragile, si trova spesso in una condizione instabile da “filo del rasoio”, in cui basta effettivamente poco per far precipitare la situazione, quel poco che a volte non viene adeguatamente indagato da una sanità frettolosa che in questo modo agisce “contro” chi avrebbe maggior bisogno di essere esaminato e ascoltato con una adeguata dose di conoscenza gerontologica e le necessarie riflessioni.
Infatti, per creare un aggravamento della preesistente situazione di salute e a pregiudicare la sua stabilità clinica e autonomia funzionale attraverso una modalità da circolo vizioso oppure tramite un andamento progressivo a cascata, possono essere sufficienti un banale episodio febbrile e le sue infinite cause; la disidratazione (e basterebbe prevenirla guardando la lingua o toccandola!); la ritenzione urinaria (sarebbe sufficiente palpare l’addome!); un fecaloma; un dolore fisico che l’anziano (in particolare se confuso nel corso di un delirium o malato di demenza) non riesce a tradurre in semplici informazioni che ci permettono di aiutarlo; una riduzione della pressione arteriosa stabilmente o solo in ortostatismo (la pressione arteriosa viene esaminata anche in piedi se in quella posizione la persona anziana riferisce sensazione di stordimento e va incontro al pericolo di cadute nonché di danno cerebrale emodinamico “silenzioso”); una ipoglicemia; gli effetti combinati di tanti farmaci e soprattutto degli psicofarmaci prescritti alla persona anziana come se fosse un quarantenne.
Nell’esempio che segue, la catena di eventi che inizia a causa di una patologia in fondo non drammatica ma che molti anziani, magari cognitivamente fragili, “non riescono a comunicare” come semplice bruciore a urinare, conduce all’incerto finale, che prevede anche la morte.
Il compito di valutare “da lontano” diventa improbo se si affronta il tema delle demenze: le numerose variabili degli aspetti clinici non possono essere descritti qui. Inoltre, in ogni caso umano c’è una famiglia, elemento indispensabile del prendersi cura, ed esistono rapporti, personalità e dinamiche vecchie e nuove tra i diversi componenti.
Mi limito ad esporre alcune diapositive
Sinteticamente: un atteggiamento “sbagliato” da parte di un familiare (o di una “badante”) nei confronti della persona cara malata di demenza può provocare l’esplosione di reazioni aggressive. Il caregiver familiare (o non familiare) deve pertanto essere FORMATO e deve STUDIARE. Gli psicofarmaci non sempre risolvono un comportamento ritenuto scorretto…
Alcune demenze esordiscono ed evolvono in modo molto complesso…
… per cui è necessario, prioritario, un atteggiamento attento all’estrema variabilità e fluttuabilità ed evoluzione dei sintomi.
La neurologia e la neurogeriatria sono portatrici di tematiche e dinamiche sconosciute ai cittadini e spesso anche ai medici
Dai dettagli, per il resto, può nascere la corretta diagnosi e la migliore terapia!
Lo scritto conferma ancora una volta l’importanza dei “piccoli guadagni” in neurogeriatria, gli small gains, tutta quella cura fatta di dettagli sanitari, sociali ma soprattutto umani ed emozionali che possiamo offrire ai nostri anziani, piccoli interventi che sono in grado tuttavia di determinare spesso risultati clinici sorprendenti, con un forte rilievo soggettivo positivo in chi soffre da lunga data: una semplice visita ed una chiacchierata, uno stimolo ad uscire all’aria aperta e camminare un po’ di più, a curare l’alimentazione, a cucinare qualcosa insieme, a cantare, persino alla cura dei piedi, strutture che i geriatri tengono in gran conto, e tanto altro ancora.
E che c’entra un gruppo Rock con la salute degli anziani?
Ed infine…
Un formicolio o una perdita di forza transitori ed improvvisi ad un braccio vengono percepiti spesso come un problema circolatorio del braccio stesso, quasi mai del cervello del lato opposto! E si tratta spesso di un attacco ischemico transitorio (AIT) cerebrale, che può preludere ad altri attacchi oppure ad un ictus cerebrale dagli esiti disastrosi. In compenso, quasi tutti sanno che l’attacco ischemico transitorio, ma a livello cardiaco (angina pectoris), richiede spesso una corsa in ospedale. L’AIT cerebrale, purtroppo, non è doloroso… e la neurologia è molto spesso immaginata ma resta tuttavia poco conosciuta. Questi esempi riflettono dinamiche della stessa patologia, in fondo, e tuttavia conoscenze diverse di due apparati del nostro corpo.
Non va meglio per molte altre malattie neurologiche: quanti cittadini sanno cosa è la Miastenia per la quale è morto il miliardario Onassis? O che la diplopia (vedere doppio) dipende molto spesso da un problema neurologico e non oculistico, e che può essere proprio un sintomo iniziale di Miastenia? O conoscono la Poliradicoloneurite di Guillain-Barré di cui porta ancora i segni il regista Ermanno Olmi? O che una malattia di Parkinson può esordire con un rallentamento motorio di tutto o mezzo corpo, e senza tremori?
Pretendere di risolvere i casi complessi per via telefonica, via mail oppure in piedi davanti agli astanti di una conferenza, svilisce il vostro problema e il lavoro di chi cerca di continuare a realizzarlo alla vecchia maniera (tocca dirlo!) impegnandosi per almeno un’ora nella prima valutazione medica allo scopo di capire, prospettare una diagnosi e le relative soluzioni attraverso un itinerario collaudato dalle conoscenze e dall’esperienza.
E’ uno schema che in molti casi l’attuale sanità sembra avere smarrito quando non applica il “prendersi cura” limitandosi al “curare” guardando l’orologio, piuttosto che ampliare il compito sanitario anche all’informazione-formazione di pazienti e di familiari per coinvolgerli in una conoscenza adeguata delle problematiche e delle strategie farmacologiche e non farmacologiche, invitarli alla prevenzione, adoperando empatia, corretta comunicazione, giustificata larghezza del limite di tempo.
Nel particolare, vi porto qualche esempio.
- Un caso esemplare
Descrivo un caso clinico e umano accaduto nel 2014 che mi ha fatto ulteriormente riflettere e aiutarmi a sostenere questo indirizzo di rifiuto di soluzioni rapide e facili per situazioni complesse, che probabilmente non mi fa apparire simpatico a chi opta per la soluzione veloce e pensa che siamo maghi.
Sono stato contattato da un’amica siciliana che vive, come me, in Friuli. Ad un suo lontano familiare di 62 anni che abitava in un capoluogo della Sicilia era stata diagnosticata da due neurologi in loco una Demenza Fronto-Temporale (DFT) in quanto da qualche settimana l’uomo “appariva cambiato” nel comportamento e nelle abilità che possedeva.
I familiari hanno cercato di coinvolgermi per avere lumi sulla correttezza della diagnosi, inviandomi documenti clinici e lastre di risonanza magnetica, che non riuscivo a “vedere” bene” al computer. Ho fatto una scelta, e come altre volte ho sostenuto l’impossibilità di una diagnosi per manifestazioni così serie in assenza di una mia personale valutazione. Ho dovuto usare la forza, perché vado soggetto all’irresistibile abitudine a dire di si per una curiosità innata che mi fa imbarcare in casi complicatissimi. In compenso, e questo mi ha consolato, ho approvato la decisione dei familiari di rivolgersi ad un collega neurologo che lavora in una struttura sanitaria pubblica di Milano, conosciuto per la sua professionalità in merito al sospetto clinico,.
Il resto ed il finale li espongo in poche parole: ricoverato, gli è stata diagnosticata una Vasculite cerebrale, una “infiammazione” dei vasi cerebrali sostenuta da una malattia autoimmunitaria che colpisce vari organi, il LES (Lupus).
Sottoposto alle cure del caso, è deceduto tuttavia poche settimane dopo.
Le riflessioni che questa vicenda umana mi impone:
- Se avessi collaborato, di certo non sarei stato capace di pervenire alla diagnosi via mail e telefono!
- Avremmo perso altro tempo prezioso, e già se ne era perso tanto: una diagnosi tempestiva avrebbe potuto salvare quella vita…
- Esistono “altre” demenze oltre quelle conosciute e vanno sempre sospettate, soprattutto se l’evoluzione è piuttosto veloce: di questo e di altro (esami del sangue, del liquor, ecc.) avrebbero dovuto tener conto i due specialisti a cui la famiglia si era inizialmente rivolta.
- Infine, pazienti o familiari, da veri disperati, tentano comprensibilmente tutte le strade possibili! Vanno capiti ma nello stesso tempo informati e indirizzati.
Cosa aggiungere? Una delle possibilità per migliorare l’assistenza sanitaria è rappresentata da una partnership tra clinici e pazienti o comuni cittadini. I pazienti, in particolare, meglio dei medici, comprendono la realtà delle loro condizioni, l’impatto che la malattia e il suo trattamento hanno sulla loro vita e come i servizi potrebbero essere meglio progettati per aiutarli. E i cittadini, se adeguatamente informati, possono collaborare correttamente con i medici o, se serve, in qualche modo difendersi dalla malasanità. Dobbiamo cominciare ad accettare il fatto che le competenze in materia di salute e di malattia risiedono tanto nel ruolo medico quanto tra i professionisti non-medici che lavorano in ambito sanitario e sono vicini ai pazienti e alle loro famiglie, tra gli esperti di altri settori essenziali per migliorare la salute, e infine tra i comuni cittadini che operano nella società civile.
La realtà della salute, quindi, dovrebbe vedere con un compito da protagonisti, accanto alla figura sanitaria centrale, il medico, gli altrettanto essenziali ruoli sanitari dei professionisti non medici, fino ad arrivare al cittadino malato e alla sua famiglia, al cittadino sano.
Lo stato assistenziale, il welfare, conquistato nel XX secolo, sembra destinato a ridurre le proprie prestazioni sotto il peso della crisi economica attuale e dell’invecchiamento della popolazione. Per ovviare alle carenze nell’area sanitaria si dovrà necessariamente realizzare un progressivo coinvolgimento dei cittadini, i quali verranno invitati ad assumersi la responsabilità della salute propria e dei propri cari, evitando gli stili di vita nocivi (alimentazione scorretta, alcol, fumo, non aderenza alle terapie e alla collaborazione alla prevenzione, ecc.).
A questo proposito segnalo un editoriale dell’autorevole BMJ del 2013 dal titolo “Let the patient revolution begin” (Richards et al.) in cui si afferma che l’unica possibilità per migliorare l’assistenza sanitaria è rappresentata da una partnership tra medici e pazienti, perché questi ultimi, meglio dei medici, comprendono la realtà delle loro condizioni, l’impatto che la malattia e il suo trattamento hanno sulla loro vita e come i servizi potrebbero essere meglio progettati per aiutarli.
Con queste prospettive, ogni cittadino non dovrebbe smettere di informarsi adeguatamente, di imparare, aiutato a leggere e a studiare, in una forma necessaria di autodifesa. I dati sconvolgenti e recenti di un analfabetismo di ritorno in Italia, tuttavia non rendono per nulla allegri: può significare andare incontro al destino di un futuro in cui prevarranno ancora di più la scarsa informazione mista ad ignoranza, presunzione, inosservanza di norme, faciloneria, cinismo, ridotta prevenzione, abbandono di terapie necessarie, fragilità, e infine errori ed eventi avversi da farmaci (un’ altra area di sofferenza inutile e di consumo delle risorse sanitarie!), e infine al ritorno dei ciarlatani!
La soluzione è ANCHE responsabilità vostra!
Armato di pazienza, ho preparato lo scritto preconfezionato con cui ho cominciato questa pagina, buono per tutti, o quasi, che serve come risposta a richieste di diagnosi o cure “facili” attraverso domande dalla platea, o telefono o e-mail.
- Un addendum utile…
In verità mi è successo qualche volta di aver dato buoni consigli per telefono: è accaduto ad esempio nel febbraio 2016. Una mia amica mi ha chiesto di visitare il padre novantenne in buone condizioni generali fino a poche settimane prima: il medico curante riteneva che i suoi episodi di dispnea (difficoltà di respiro, che avevano cambiato il corso della vita dell’anziano e le sue abitudini, tra cui la decisione di non dormire più a letto con la moglie ma seduto sul divano…) fossero di origine psicologica. Ho risposto che se il problema era questo, forse era indicato uno psichiatra, in quanto sono un neurologo… ma, come sempre, non mi sono limitato al gelido e provocatorio consiglio che mira a far capire la differenza tra le due specialità. Di fronte all’idea del medico e all’insistenza dell’amica, in assenza di una mia personale valutazione di tipo generale più che neurologica, ho dettato una condizione: lo avrei visitato se un esame emogasanalitico (saturazione di ossigeno, ecc. nel sangue), fatto in giornata in Pronto Soccorso, fosse risultato negativo. E’ stato ricoverato d’urgenza per scompenso cardiaco con iniziale versamento pleurico…
Infine, ricordi ed esperienza. Era una pessima abitudine di qualche collega, più di quaranta anni fa, all’inizio della mia attività ospedaliera in neurologia, quando ci si occupava anche della “piccola psichiatria”: … l’abbiamo studiato diverse volte, non troviamo niente. Per noi è un nevrotico… Così parlava il chirurgo, o l’ortopedico o magari il cardiologo. Poi magari accadeva di scoprire un tumore del pancreas o un aneurisma aortico che creava problemi al midollo, o altro ancora…
A parziale giustificazione va aggiunto che non c’erano la TAC né la RM, anche se non tutte le malattie, lo ribadisco, si possono diagnosticare con gli esami di neuroimmagine!
Da allora ho imparato a non fidarmi sempre del sistema “abbiamo fatto tutto, per cui non resta da pensare che il problema sia psicologico”.
Un motivo in più per spingermi a valutare di persona, col mio tempo, la storia, la mente e il corpo di ogni persona che mi chiede un aiuto professionale.
È una MIA necessità ineludibile che va assolutamente rispettata! Per il mio ed anche per il vostro bene.
Dott. Ferdinando Schiavo
Questo articolo assolutamente interessante e illuminante, mi trova in completo accordo, specie sulle modalità così ben descritte dei medici in generale divfronte ai sintomi degli anziani. Articolo che sarebbe da divulgare il più possibile. Un vero peccato con mio enorme rammarico che vi siano pochi professionisti seri come il Dottor Schiavo!sono la figlia di un’anziana con disgnosi di decadimento cognitivo che ogni giornosi scontra con la sanità attuale lasciando pazienti e familiari nella confusione e nell’angoscia. Grazie Dottor Schiavo!
Gentile signora Betti, grazie per gli elogi ma… sarebbe meglio fare in modo che “gli altri” professionisti fossero più disponibili, aggettivo che in questo caso assume molti significati! Come si può fare? Indignandosi, ma non basta! Crescendo come bravi cittadini ben informati sulle faccende di salute (studiare, a volte basta leggere con costanza un buon quotidiano nelle pagine dedicate alla salute), in modo tale da porre al medico gentilmente e con spirito collaborativo domande ben collaudate e, afatto ciò, potere contrastare certi eventuali atteggiamenti di superficialità, di arroganza o condotte di omissione o, all’opposto, di accanimento! Studiare, come a scuola…
Gentilissimo Dott. Schiavo ho letto tutto ciò che ha scritto e gli articoli a riguardo. Mi sono imbattuta nei suoi articoli e relative spiegazioni riguardo la demenza a corpi di Lewy perché sostengo che mia suocera nonché ex psichiatra sia affetta da ciò ma qui al sud precisamente in Sicilia non lo hanno diagnosticato per cui cercavo in internet delle risposte e mi sono imbattuta nei suoi scritti e sono arrivata alle mie conclusioni.. peccato Lei non sia vicino per poterle mostrare la paziente e peccato che la paziente a sua volta non deambuli per cui da Messina e difficile arrivare fino ad Udine Dove Lei si trova. Grazie mille per i suoi studi e le sue ricerche che sono di immenso aiuto per chi non e competente in materia come me ma anche per molti suoi colleghi. Chissà che magari lei non si trovi in Sicilia per qualche convegno o non so o magari riusciremo a raggiungerla così da avere finalmente un parere serio e competente. Buona giornata
Cosa mi consiglia di leggere e studiare come mi devo comportare per aiutare il malato di Alzheimer?
I libri e le pubblicazioni sul tema sono veramente tantissimi. Può trovare alcune pubblicazioni, gratuite o quasi, nelle associazioni Alzheimer di tutti i capoluoghi.
Libri:
Michele Farina:Quando andiamo a casa?
Infinito Presente. Flavio Pagano. Sperling & Kupfer, 2017 Perdersi di Lisa Genova…
Libri “tecnici”: moltissimi, troppi. Vedere elenco della Erickson e della Maggioli… Anche sui vari metodi: Validation, Gentlecare, Montessori ed infine… La conversazione possibile con il malato di Alzheimer. A cura di Pietro Vigorelli. Franco Angeli, 2016. Sul mio “Malati per forza” molte pagine sono dedicate a demenze e parkinsonismi.
In bocca al lupo per tutto! F. Schiavo
Un articoli molto interessante, noi familiari ci troviamo presi in un vortice di supposizioni, tentativi di diagnosi e farmaci dati con troppa faciloneria, da essere disorientati, per cui a volte vorremmo ascoltare altri pareri che si riducono per lo più a scombussolarci maggiormente con diagnosi contrapposte con esami mai approfonditi, oppure con diagnosi vaghe e inesatte. Ci è capitato di andare ad una visita da un famoso professore, che non ci ha inizialmente degnato di uno sguardo negli occhi, senza nessuna empatia, che parlava di mio marito (con diagnosi generica di Alzheimer iniziale)
escludendolo dal dialogo come se non fosse presente, tanto che lui in un rigurgito di dignità offesa gli ha detto chi era e cosa aveva fatto nella vita, la sua espressione è subito cambiata, ma mio marito che aveva speso tutta la sua energia nel fargli capire che avrebbe voluto sentirsi persona in quanto uomo e non per il lavoro che aveva fatto, ha voluto che lo aiutassi a rivestirsi, ha pagato la visita, ha preteso la fattura e dopo averlo salutato si è rivolto a me dicendo qui non ci rimetterò più piede.
Tanti anni fa, da giovane neurologo sano e senza il dovere di assumere farmaci (adesso sono tre, a 74 anni…),sono stato ripreso anche io da una paziente che avevo “oscurato”.
Ed é così che ho imparato una delle tante regolette necessarie alla BUONA COMUNICAZIONE oltre che alla corretta educazione e all’empatia… Niente di ciò viene insegnato all’università…
Volendo, con un po’ di umiltà, potrebbero riuscire nell’impresa anche altri colleghi!
Grazie Dottore per la sua professionalità e disponibilità. Sono la figlia di un supposto malato di demenza di lewy (83 anni) in cura per problemi comportamentali (aggressività e allucinazioni) da due mesi presso un centro specializzato della nostra zona. Vorrei sapere se esiste attualmente un test per rilevare questo tipo di demenza con maggiore certezza, perché ho letto che alcuni farmaci utilizzati ( come olanzapina)possono avere effetti secondari anche gravi su questi pazienti. Mio padre sta peggiorando in maniera inesorabile e veloce ogni giorno…grazie mille per qualsiasi info in tal senso
E’ una demenza veloce e gli antipsicotici “vecchi e nuovi” non sono spesso tollerati… Test: qualcosa sta sperimentando in Italia Lucilla Parnetti a Perugia. Utilità?